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"È una questione di tempo. Quando il paziente comincia ad avere febbre, tosse, dispnea bisogna intervenire subito con la terapia a casa. Solo così puoi evitare l’aggravamento che rende tutto molto più complesso. Il tampone è fondamentale perché ti permette di partire con la cura farmacologica, e i medici di medicina generale devono poter prescrivere i test, come in Veneto”.

Parla per esperienza diretta Franco Marchetti, medico di famiglia a Milano, giornalista scientifico e storico collaboratore del Corriere Salute che, durante la fase più critica dell’epidemia ha anche lavorato all’ospedale di Seriate, in provincia di Bergamo. Il medico milanese, che non ha mai rinunciato alle visite domiciliari, a fine marzo si è ammalato di Covid e si è curato a casa. “Ora i miei pazienti sono tutti salvi, e anch’io sono guarito”, ci dice al telefono al suo rientro in studio dopo oltre un mese.

Dottor Marchetti, lei ha vissuto in prima persona quei momenti cruciali: può dirci come si è ammalato?

Quando è cominciata l’epidemia, l’indicazione per i medici di famiglia era di fare una sorta di filtro telefonico per individuare i pazienti Covid: poiché non avevamo dispositivi di protezione non dovevamo esporci al rischio di contagio. Tuttavia, appena sono riuscito a recuperare da un collega una mascherina FFP3 ho cominciato ad andare a casa di quei pazienti che ritenevo più problematici. Purtroppo, poiché le mascherine erano introvabili, ho dovuto riutilizzare sempre la stessa e così, probabilmente, mi sono esposto al contagio. In quei giorni ho visitato diverse persone con polmonite Covid.

Tanti malati “con sintomi lievi” sono rimasti in isolamento a casa. In caso di aggravamento dovevano chiamare i numeri dell’emergenza Covid-19. Ma il sistema in Lombardia non ha funzionato.

In quel periodo chi stava molto male veniva ricoverato in ospedale, mentre chi aveva sintomi lievi era seguito telefonicamente. Poi c’era quella fascia intermedia di persone che stavano male, ma le loro condizioni non erano ritenute così gravi da richiedere il ricovero: quando queste persone chiamavano il 112 venivano sottoposte a un filtro selettivo, ma alla fine la risposta degli operatori era quasi sempre la stessa, “resti a casa e prenda la tachipirina”. Ecco, secondo me questo è stato un grave errore. D’altro canto, capisco che la situazione fosse fuori controllo a causa di un flusso enorme di malati.

Come svolgeva in quei giorni la sua attività di medico di famiglia?

In realtà l’attività in studio si era drasticamente ridotta. In quel periodo il mio lavoro era diventato prevalentemente telefonico, ricordo che arrivavano anche 80 chiamate al giorno. E quando ritenevo che ci fossero rischi di aggravamento andavo a trovare i pazienti a casa. Intanto era uscito un bando della Regione per il reclutamento di medici negli ospedali in cui c’era particolare bisogno: io ho scelto Seriate, in provincia di Bergamo. Ho cominciato il 18 marzo: mi recavo all’ospedale tutti giorni, anche sabato e domenica e restavo lì fino al pomeriggio, quindi tornavo a Milano per le visite domiciliari e poi in serata andavo in studio, dove comunque ogni giorno arrivava qualche paziente.

Che dire a proposito del rischio contagio negli ospedali?

A Seriate gli operatori sanitari erano protetti con dispositivi adeguati, però certamente i primi giorni ci sono state situazioni critiche come quelle degli ospedali di Codogno o Alzano. Credo che l’area del bergamasco sarebbe dovuta diventare subito zona rossa.

Ci parli dell’esperienza con i suoi assistiti.

I miei pazienti Covid oggi stanno tutti bene: una parte è stata curata a casa, riuscendo a evitare il ricovero. Ho somministrato loro una terapia a base di idrossiclorochina e azitromicina, seguendo le linee guida della Società italiana di malattie infettive e tropicali e trasferendo nella pratica clinica quanto apprendevo in ospedale. Alcuni miei pazienti sono stati ricoverati e anche loro sono guariti o in via di guarigione: c’è chi ha avuto bisogno della riabilitazione respiratoria dopo la terapia intensiva, mentre alcune persone più anziane stanno facendo la riabilitazione motoria. Si è salvata anche la paziente più grave, che ha rischiato davvero di non farcela. Si tratta di una donna di circa 40 anni che vive da sola ed è giunta in ospedale in condizioni critiche: aveva una saturazione molto bassa, 78, ed è stata subito intubata. Nei giorni precedenti avevo già chiamato il 112 perché mandassero al più presto un’ambulanza: allora la saturazione era intorno a 90 e la paziente appariva già confusa e rallentata. L’ambulanza era arrivata, ma non so per quale ragione la paziente non è stata portata in pronto soccorso. A quel punto ero francamente preoccupato. Il giorno dopo ho chiamato nuovamente il 112: l’ambulanza è arrivata dopo qualche ora, il ricovero è scattato quando le condizioni della donna erano ormai critiche. È rimasta in terapia intensiva per oltre un mese e per fortuna si è salvata. Ieri mi ha chiamato, dicendomi che è stata dimessa e sta bene. Dice di non ricordare nulla dei giorni prima del ricovero, e questo conferma quanto fosse grave la situazione.

Nel frattempo anche lei si è ammalato di Covid.

La mattina del 27 marzo sono andato al lavoro in ospedale, ma non mi sentivo bene, avevo febbre, tosse, saturazione ridotta, dispnea sotto sforzo. La Tac ha confermato un focolaio alla base del polmone destro, per fortuna circoscritto: così sono tornato a casa, mi sono messo a letto e mi sono curato con la stessa terapia prescritta ai miei pazienti: Idrossiclorochina e azitromicina. La prima settimana è stata la più pesante: era come se avessi una forte influenza con dolori diffusi, astenia e tosse insistente. La febbre, inizialmente alta, è scesa a 37,5. Poi progressivamente ho cominciato a sentirmi meglio, ma provavo sentimenti contrastanti: confidavo nel successo della terapia, visti anche i risultati sui pazienti, mentre conservavo il timore costante di un’evoluzione sfavorevole. Alla fine tutto è andato bene e dopo oltre un mese gli ultimi due tamponi sono negativi.

Cosa ha appreso da queste esperienze?

La prima considerazione è che la terapia con antivirali, idrossiclorochina e azitromicina può aiutarci a gestire a casa quella “fascia intermedia” di pazienti che avvertono i primi sintomi della malattia: febbre, tosse, dispnea; è quello il momento di intervenire subito con i farmaci per evitare che si scateni la risposta infiammatoria che rende molto più complesso ogni intervento medico. Per placare la tempesta citochinica ho visto somministrare, non sempre con successo, tocilizumab e cortisone, oltre all’eparina.

E il test con il tampone?

Il tampone è fondamentale perché ti permette di partire subito con la terapia. Se riesci a frenare l’evoluzione della malattia e non fare ricorso agli ospedali questo contribuisce ad alleggerire l’intero sistema regionale. In una pandemia ciò che conta è evitare il collasso delle strutture. Ecco perché è importante fare come in Veneto, con tamponi diffusi e medici di medicina generale messi in condizione di prescrivere il test. Noi invece dobbiamo passare attraverso l’Ats, con un pericoloso allungamento dei tempi. In sostanza, posso capire che l’impatto emergenziale nella nostra regione abbia creato molti problemi, ma ora bisogna far sì che anche nella “fascia intermedia” si possano fare i test e che il medico di famiglia possa intervenire. Anche perché una cosa è certa: a casa si può gestire solo la fase iniziale della malattia, dunque devi cercare di frenare la sua evoluzione prendendo i farmaci adeguati.

Resta il nodo dei possibili effetti collaterali di questa terapia.

L’idrossiclorochina, in particolare, può creare problemi ai pazienti cardiopatici, causando aritmie gravi. Tuttavia, per riconoscere una situazione di rischio è sufficiente eseguire un elettrocardiogramma. Si tratta di un esame che non è complesso e si può fare tranquillamente a domicilio.

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