Voltare pagina, dire addio ai paradigmi acquisiti fino a ieri dati per scontati. E soprattutto promuovere una nuova alleanza delle scienze umane: non solo la scienza medica e l’antropologia medica, ma anche la politica, l’economia e l’ecologia devono cercare nuove sinergie per la salute dell’umanità. È la lezione da apprendere dalla pandemia, secondo Giorgio Cosmacini, se vogliamo sconfiggere il nuovo nemico invisibile. Cosmacini è medico e filosofo: già primario all’Ospedale Maggiore Policlinico di Milano, insegna Storia della Scienza alla facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, dove è anche docente di Storia della Medicina. Lo abbiamo intervistato prima dell’uscita del suo nuovo libro, Concetti di salute e malattia fino al tempo del Coronavirus, Editrice PANTAREI (Milano) in libreria il mese prossimo.
Professor Cosmacini, nel volume L’arte lunga (Editori Laterza) lei afferma che il passaggio dal secondo al terzo millennio è portatore di nuovi problemi per la medicina e la sanità mondiali legati in particolare ai nuovi contagi. Era prevedibile a suo parere questa pandemia?
In qualche modo sì. Dal secondo dopoguerra in poi stiamo facendo i conti con una serie di eventi che in rapida sequenza sono così riassumibili. Nel ‘57-‘58 abbiamo avuto l’influenza asiatica, causata dal virus H2N2 e nel ‘68-‘69 si è diffusa l’influenza cinese (H3N2). Poi è stata la volta della Sars che ha avuto il primo focolaio epidemico nel novembre 2002, nella provincia cinese del Guandong e da qui è dilagata in altre parti della Cina. L’allarme globale dell’Oms è scattato il 15 marzo 2003. Un bilancio dell’Oms ha censito a metà maggio 689 morti in tutto il mondo, di cui 363 in Cina e 23 in Canada. Quanto alla morbilità, i casi di contagio sono stati 8.117 e i ricoverati 4.326. Quindi, a luglio 2003, nove mesi dopo l’esordio, la diffusione del virus è cessata. La vicenda della Sars ha dimostrato che un buon sistema di sorveglianza è in grado di isolare un agente virale prima che si scateni una pandemia. Successivamente, nel triennio 2004 - 2006 si sono diffuse l’influenza suina (nuovo virus H1N1) e l’influenza aviaria (H5N1).
Si può dire che il timore di epidemie appartenga alle radici della nostra cultura.
Il perdurare dell’ancestrale antropo-virus-machìa, cioè della guerra tra microviventi (tra cui i virus) e macroviventi (tra cui l’uomo) è antica quanto la vita sulla terra e appartiene all’evoluzione, per selezione naturale, delle rispettive specie, come ha insegnato Darwin. Voglio ricordare che per l’anno 2013, il famoso romanziere del secolo scorso Jack London fece una previsione agghiacciante che oggi suona di grande attualità. Nell’estate dell’anno 2013, scrive London nel libro La peste scarlatta del 1912, cioè cent’anni prima, “S’apprese che una strana malattia stava propagandosi a New York. C’erano allora 17 milioni di abitanti in quell’immensa città. Ma nessuno s’impensieriva. (…) Eravamo sicuri che i batteriologi avrebbero trovato qualcosa per vincere questi nuovi batteri. Ma intanto essi continuavano a distruggere i corpi umani con sorprendente rapidità e, dovunque penetravano, sopraggiungeva inevitabilmente la morte. Nessuno ne scampava (…) I batteriologi avevano pochissime probabilità di vincere quei batteri. Morivano nei loro laboratori. Erano eroi”.
Quel brano oggi appare davvero inquietante... Nel campo delle malattie infettive, lei scrive sempre ne L’Arte lunga, l’Aids ha scosso la fiducia in una definitiva vittoria, inaugurando un periodo di incertezze e di nuove ricorrenti paure.
C’è tutta una serie di scansioni morbose, epidemiche, pandemiche che si sono alternate alle influenze stagionali benigne facendo vedere che c’erano anche delle pestilenze, se vogliamo chiamarle con questo nome, ossia delle influenze maligne che naturalmente grazie a noi restavano relativamente contenute e poco diffusive. Adesso è arrivata questa pandemia di Covid. Teniamo presente che di malattie improvvise, non preventivate, avevamo avuto già avuto l’evenienza dell’Aids nel 1980. Eravamo convinti che ormai la battaglia fosse quella contro le malattie metabolico-degenerative, non più contro quelle infettive e contagiose, ma la storia insegna che così non è stato in passato e così non è oggi, né nel passato remoto né nel passato recente. Per cui siamo stati presi, ahimè, alla sprovvista
È possibile affermare che ci sia stata una sottovalutazione da parte degli scienziati?
Le rispondo con un episodio di qualche anno fa. Pensi che nel 1980, nell’anno in cui è arrivato l’Aids, l’Organizzazione mondiale della sanità era uscita col manifesto “Salute per tutti nell’anno 2000”. Questo ci fa rendere conto come anche la cosiddetta scienza medica, quando diventa scientismo cioè diventa troppo sicura di sé e scambia la sicurezza per sicumera, va incontro a delle previsioni fallaci
Alla luce di queste considerazioni, quale lezione possiamo apprendere da questo evento pandemico?
Ne dobbiamo far tesoro. Soprattutto divenendo consapevoli del fatto che oggigiorno la sola arma vincente contro il nemico invisibile è l’alleanza fra una scienza medica avveduta e una politica sanitaria altrettanto avveduta. Quindi, praticamente, scienza e politica devono procedere insieme, non si può pensare soltanto a una soluzione scientifica, bisogna sempre pensare a una associata soluzione sanitaria, o meglio socio sanitaria.
Oggi è quanto mai rilevante, proprio per i rapporti che esistono tra patologia e economia, tra patologia ed ecologia, pensare che anche queste discipline sono scienze umane, e non solo la medicina e l’antropologia medica. Anche l’economia e l’ecologia, così come la politica, sono strettamente legate alla scienza medica. E’ questa la lezione importante da apprendere da questa pandemia, una lezione che ci delinea un nuovo paradigma.
Professore, stiamo andando nella direzione giusta in questo momento?
Tutto sommato ritengo di sì. O meglio, oggi c’è chi lavora per questo paradigma e c’è chi invece rema contro, ci sono varie opzioni: si tratta, come sempre, di fare delle scelte.
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