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A tre mesi dal "caso 1” – il trentottenne di Codogno guarito dopo un lungo periodo in terapia intensiva - sono ancora tanti gli interrogativi sul nuovo virus in circolazione. Fabrizio Pregliasco, virologo dell’Università degli Studi di Milano, oltre che direttore sanitario dell’Irccs Galeazzi di Milano e nuovo coordinatore scientifico del Pio Albergo Trivulzio, ci aiuta a fare il punto tra incertezze e nuove speranze (si veda la videointervista di Temasalute).

Professor Pregliasco, l’Italia si appresta a entrare nella Fase 2, con una riapertura molto graduale delle attività economiche… 

In realtà parlerei di “Fase 1,5”: sono ancora molte infatti le restrizioni previste a causa dell’attuale situazione pandemica. Si potrà procedere a una vera Fase 2 soltanto con la responsabilità di tutti gli italiani. In questo momento non possiamo permetterci di abbassare la guardia contro il Sars-Cov-2. 

Cosa sappiamo oggi di questo nuovo virus e cosa manca per batterlo? 

Sono ancora tantissimi gli aspetti da individuare, conoscere o confermare. Sappiamo che si tratta di un virus a Rna, che ha una vicinanza genetica con il virus Sars-Cov-1, quello della Sars del 2002, tant’è che è stato denominato Sars-Cov-2. Sappiamo che deriva da alcuni mammiferi, in particolare dai pipistrelli anche se non è ancora chiaro se ci siano stati animali intermedi per arrivare alla diffusione: è quindi un virus naturale e non determinato da sperimentazioni in un laboratorio di Wuhan, come fake news iniziali facevano immaginare. Inoltre è un virus per ora stabile: gli isolamenti virali in tutto il mondo confermano che quello in circolazione è molto simile, per oltre l’80%, a quello isolato inizialmente a Wuhan.  Non siamo tuttavia in grado di dire se in futuro potranno esserci modificazioni, in meglio o in peggio, rispetto alla capacità e all’aggressività. Sappiamo anche come avviene il contagio. Sars-Cov-2 ha come principale via di trasmissione i droplets, le goccioline di Flugge di maggiori dimensioni, superiori a 5 micron. Sono particelle che per gravità si diffondono in un volume limitato, fino a circa un metro e ottanta di distanza: da qui l’indicazione di mantenere il distanziamento fisico di un metro tra le persone, visto che la gran parte delle goccioline si disperde in questo volume. Inoltre, anche attraverso le feci esiste possibilità di trasmissione, pur con minore efficacia. 

Quali sono i tempi di sopravvivenza del virus e come si può inattivare? 

Anche se alcuni studi ne confermano la presenza dopo alcuni giorni, in genere la carica virale si riduce di circa la metà in 4 ore, a seconda della superficie in cui è disperso. Una buona notizia è che questo virus può essere eliminato e inattivato dai comuni disinfettanti come l’alcol al 60 per cento e i composti del cloro: quindi un’igiene ambientale in generale ne garantisce l’eliminazione 

Come si manifesta la malattia Covid-19?

Ci sono variegate forme che vanno dall’asintomatico a una infezione simil influenzale, più o meno intensa dal punto di vista della sintomatologia respiratoria e della febbre, spesso presente ma non sempre, con manifestazioni un po’ atipiche come tosse secca, oppure anosmia, perdita dell’olfatto, e ageusia, perdita del gusto soprattutto nella fase finale della malattia. Vario può essere anche il decorso: nel 20 per cento dei casi si presenta in una forma più complessa, con l’evidenziazione di una polmonite virale primaria che normalmente si scatena dopo 6 giorni dall’inizio della sintomatologia ed è una sorta di reazione eccessiva dell’organismo: questa polmonite virale interstiziale rende difficile la respirazione e può portare a complicanze e letalità soprattutto nei soggetti più fragili. 

Esiste ad oggi un protocollo per le terapie a casa? 

Durante l’isolamento domiciliare serve soprattutto un attento monitoraggio della saturazione di ossigeno con il saturimetro: questo controllo serve per far sì che le persone non arrivino all’ospedale quando hanno già gravi problemi respiratori, con “fame d’aria”. Purtroppo questo monitoraggio a domicilio non è stato possibile in alcuni casi, nella concitazione della prima fase epidemica, quando molti sono arrivati all’ospedale in debito di ossigeno. Quanto alle terapie, il trattamento con idrossiclorochina è utile non tanto alla prevenzione, come sembrava in un primo momento in base a uno studio effettuato sul personale sanitario, ma è interessante invece nella fase iniziale della malattia soprattutto in combinazione con l’azitromicina, un antibiotico che sembra avere un’azione riducente la diffusione. Questi farmaci oggi si stanno utilizzando, così come gli antipiretici che restano il trattamento principe. 

Quanto tempo occorrerà per un vaccino e quali sono le tecnologie adottate? 

Bisognerà attendere almeno un anno per avere un vaccino con caratteristiche di qualità, sicurezza ed efficacia, ma anche per poter disporre di dosi sufficienti. Due le tecnologie che si stanno via via evidenziando: una prevede l’uso di adenovirus in cui viene veicolato l’antigene esterno superficiale di questo virus, mentre l’altra tecnica utilizza sistemi a Rna, inoculando Rna nel soggetto per replicare nell’organismo quei pezzi di antigene che serviranno per creare una risposta anticorpale. Si tratta di studi interessanti, vedremo se saranno portati avanti con successo. Nell’attesa dovremo comunque modificare le nostre abitudini ancora per lungo tempo. 

Passiamo alle misure di contenimento del contagio.

Ad oggi rimangono le indicazioni che si sono dimostrate efficaci di distanziamento sociale e di igiene delle mani per cercare di ridurre il cosiddetto indice R0 che misura la potenziale trasmissibilità di una malattia infettiva, ovvero quante persone può contagiare ogni infetto. Nel caso del nuovo virus l’indice non è elevatissimo, considerando che mostra un’evidenza di 2,5 (poco più di un’influenza normale) mentre il virus del morbillo ha un R0 di 17. 

E i dispositivi di protezione individuale? 

Attraverso le cosiddette mascherine FFP3, FFP2, che sono dispositivi di protezione individuale (Dpi) si riesce ad avere protezione per sé e per gli altri. La mascherina chirurgica ha un’azione protettiva soprattutto del malato verso l’esterno, riducendo del 90 per cento la dispersione di particelle sopra i 3 micron, ma non dà grandissima protezione a chi la indossa. Un utilizzo della mascherina nella vita comune, così come un foulard o una sciarpa sulla bocca e sul naso dà una riduzione di arrivo di questi droplets, però rimane sempre indispensabile il distanziamento sociale. Questa indicazione sta raggiungendo buoni risultati in tutti i paesi in cui viene attuata, Italia compresa: purtroppo non porta all’eliminazione del virus, che ha una capacità di diffusione così alta, ma riesce a solo a mitigare l’epidemia. 

Eppure la Sars del 2002 è praticamente scomparsa nove mesi dopo l’esordio. Potrebbe accadere lo stesso anche per Covid 19? 

Nel 2002 avevamo avuto la capacità di contenere l’infezione del virus Sars-Cov-1 perché, in quel caso, soltanto i malati sintomatici erano contagiosi per gli altri; invece, nel caso dell’attuale virus abbiamo ben compreso purtroppo il ruolo degli asintomatici: quindi c’è una maggiore difficoltà di controllo e una diffusività ampissima. Le misure di contenimento adottate contro l’epidemia hanno fatto sì che in Italia arrivassimo a gestire tutti i casi, ma siamo andati molto vicini a una saturazione delle terapie intensive. 
Ora c’è il rischio di successive ondate, dunque sarà determinante riuscire a controllare eventuali nuovi focolai.  

Per questo è determinante l’uso dei test diagnostici

Sì, e sono due le tecniche di rilevazione ben consolidate: il tampone faringeo che consente attraverso la biologia molecolare di rilevare il virus vivo nelle prime vie respiratorie: il tampone positivo è indice di malattia in corso e di contagiosità. In via di definitiva validazione sono invece i test più precisi e specifici per la misurazione delle immunoglobuline, ossia la risposta anticorpale: questi test permettono, insieme all’utilizzo combinato del tampone, di capire la situazione del soggetto rispetto ad avvenuta infezione o al suo essere ancora suscettibile di ammalarsi. 

L’azione combinata dei test è dunque fondamentale per la riapertura delle attività economiche nella Fase 2. 

A tale proposito, tuttavia, un elemento di incertezza e di cui bisognerà tener conto è l’allungamento in alcuni casi dei tempi di negativizzazione dopo la guarigione clinica. Le prime indicazioni ci dicevano 14 giorni di quarantena per arrivare ad avere un tampone negativo, e la gran parte dei soggetti si negativizza nell’arco di 6-7 giorni. Nell’ampliamento della casistica si sta vedendo che non sempre è così: talvolta bisogna aspettare 30 giorni e più dopo la guarigione per arrivare alla negativizzazione: questo pone problemi per il controllo successivo della malattia, anche perché molti medici, infermieri e operatori sanitari si sono ammalati e ora sono in attesa del tampone. Bisognerà approfondire ulteriormente questi aspetti. Oggi la Regione consente che anche gli operatori positivi al test possano lavorare finché non diventano sintomatici, purché indossino i dispositivi di protezione. 

E veniamo a ciò che ancora non sappiamo del nuovo virus. 

Di fatto abbiamo molti interrogativi: innanzitutto non sappiamo se si diventerà immuni. Non sappiamo se l’avvenuta infezione ci proteggerà per tutta la vita. Di sicuro, nel caso del virus della Sars del 2002, si è visto che i soggetti che avevano sviluppato immunoglobuline IgG della memoria avevano una risposta immunitaria per almeno 4 anni. 

Quali altri quesiti restano aperti? 

Non si sa esattamente quali organi vengano coinvolti nell’infezione. Al di là della polmonite primaria, l’elemento di maggior gravità della patologia che può portare al decesso, è stato osservato anche un coinvolgimento cardiaco, con conseguenti danni al sistema cardiocircolatorio, così come residuati possibili danni polmonari. Sono stati evidenziati anche danni neurologici segnati da perdita di olfatto e gusto, anosmia e ageusia, come si è visto solo recentemente alla luce di un aumento dei casi. 

In Italia si registra un elevato indice di letalità

A tale riguardo la casistica italiana pone delle differenze rispetto al resto del mondo. Si è visto come le percentuali aumentino di due cifre per soggetti anziani e con comorbilità, ma tutto resta ancora da scoprire, alla luce del fatto che in Italia, nella fase acuta del marzo scorso, i dati sono stati sicuramente sottostimati rispetto a quelli individuati per l’incapacità di eseguire una quantità impressionante, che comunque è stata realizzata, di test sui campioni faringei.

Una ricerca dell’Università di Harvard e altri studi mostrano possibili correlazioni tra l’epidemia e l’inquinamento atmosferico. 

Non si sa ancora con certezza se il clima, l’umidità e l’inquinamento abbiano degli effetti: per quanto concerne quest’ultimo fattore, sicuramente in alcune nazioni i centri più inquinati come Milano e New York evidenziano un maggiore impatto, e alcuni modelli matematici mostrano una possibile correlazione. Quanto al caldo, in alcune nazioni con temperature diverse dalla nostra l’epidemia si sta diffondendo di meno, ma si tratta di paesi con minori capacità di individuare l’impatto del virus rispetto ad altre patologie. 

Lei ha parlato di forme diverse di manifestazioni della malattia.

La causa di questa differenziazione non è ancora chiarita. Non si sa perché le manifestazioni di questa patologia abbiano uno spettro così ampio, che va dal nulla degli asintomatici a forme simil influenzali con sintomi da leggeri a più importanti, fino alla polmonite virale. Così come non è ancora ben chiaro perché i maschi siano leggermente più colpiti delle donne soprattutto nelle forme pesanti e nella letalità. 

Quali sono i principali interrogativi rispetto ai farmaci? 
Non si sa ancora quali molecole siano effettivamente efficaci, anche se sicuramente, come ho già affermato, la clorochina in combinazione con l’azitromicina dà risultati nella prima gestione domiciliare, così come sappiamo essere efficace il paracetamolo. Invece, un altro antinfiammatorio come l’ibuprofene è stato messo sotto i riflettori, scatenando in un primo momento molta agitazione perché si pensava potesse peggiorare malattia: oggi sappiamo che non è così. Un problema simile ha riguardato gli ACE inibitori, come gli antipertensivi che anch’io tra l’altro assumo: inizialmente si riteneva potessero aggravare i sintomi, ma anche in questo caso si è visto che non è così. 

Per quanto concerne la sperimentazione, ad oggi risultano efficaci antivirali come resevir, lo stesso usato contro il virus dell’Ebola. Meno efficaci sarebbero invece alcuni farmaci antiproteasici registrati per l’HIV.
Interessanti anche gli effetti di farmaci biologici che riducono la risposta immunitaria come tocilizumab, mentre altre sostanze come l’eparina sono oggi utilizzate: potrebbe avere un ruolo di prevenzione di una coagulazione disseminata intravasale che si verifica nelle situazioni più gravi, e addirittura sarebbe spiazzante rispetto al virus. Ma si tratta di approcci che devono essere validati attraverso studi clinici controllati, in corso a livello nazionale e internazionale, studi multicentrici. 

Non sappiamo con precisione neppure da quanto tempo il virus circola in Italia. 

Questo aspetto non è chiarissimo, anche perché dalla Cina non abbiamo la certezza dei dati. Un certo margine di errore è inevitabile, ma possiamo dire che in Italia il virus sia arrivato in dicembre e in gennaio durante l’epidemia influenzale, e questo ha fatto sì che fossero misconosciuti i primi casi.  

Perché la Lombardia è stata così colpita?

L’ipotesi che posso fare, condivisa anche da altri studiosi è che il virus sia arrivato presumibilmente in via diretta dalla Germania, in un primo episodio scatenato nella regione della Westfalia dove una donna cinese che lavorava presso la Webasto, una grossa azienda bavarese, ha causato un’epidemia circoscritta tra i suoi colleghi: la donna si è ammalata infatti nel viaggio di ritorno, proprio agli inizi di gennaio. Questa ipotesi è suffragata dal fatto che il virus in Italia è molto simile a quello “tedesco”, passato per la Germania. Inoltre, non è affatto casuale che la zona di Codogno sia quella di prima evidenziazione: a Codogno sono presenti centri di logistica importantissimi a livello internazionale, che favoriscono intensi scambi tra le persone. Sicuramente in dicembre e gennaio i primi casi sono cresciuti. Poi abbiamo cominciato a vedere un iceberg che era rimasto sottotraccia fino al 21 febbraio, quando il primo soggetto con una sintomatologia più grave, il famoso “caso 1” del trentottenne di Codogno è andato all’ospedale, facilitando purtroppo la diffusione del virus. Oggi sappiamo che quello non era il “caso1”, ma probabilmente il “caso 200”, o 500... Non a caso, inoltre, l’epidemia si è diffusa verso Bergamo e verso Brescia, zone di vicinanza e di grande interscambio lavorativo: il virus si è mosso prendendo la via delle autostrade. E così qui in Lombardia abbiamo avuto uno tsunami incontrollabile rispetto a quello veneto di Vo’ Euganeo, focolaio secondario dell’epidemia che ha poi interessato il Veneto e quindi tutta Italia con diversi spezzoni incendiari distribuiti sul territorio. Non a caso, infine, le successive misure di isolamento e di quarantena attuate nelle regioni del centrosud e nelle isole sono riuscite a mettere maggiormente sotto controllo l’epidemia rispetto alla Lombardia che ha subito il primo impatto. 

Quali sono le questioni principali da affrontare nella Fase 2? 

Sicuramente oggi pesa la difficoltà di contenere i contagi intrafamiliari: bisognerebbe organizzare degli ospedali per la quarantena, ma servirebbe un’organizzazione imponente e molto onerosa perché, considerando solo il caso-Lombardia, il problema interessa migliaia di persone. Un’altra questione che resta aperta riguarda le RSA, strutture molto permeabili all’esterno che hanno visto falcidiare tante persone ospiti delle strutture. Al di là delle polemiche relative ai casi del Pio Albergo Trivulzio, della Sacra Famiglia e del Don Gnocchi, mi spaventano gli effetti futuri di questa situazione. Oggi noi siamo considerati tutti “eroi” perché siamo sulla linea del fuoco. Ma nel prossimo futuro, con quello che sta già emergendo, temo ci possano essere numerose contestazioni medico legali: noi approcciamo questi malati con tentativi trattamentali e con carenze documentali, poiché in questa situazione emergenziale mancano spesso gli elementi documentali. Non si tratta di un aspetto tecnico scientifico, ma auspico che venga introdotto un “ombrello” per i sanitari che tenga conto di questa situazione di emergenza. 

Quando usciremo dal tunnel? 

Restano ancora molte le cose che non si conoscono, però si vede una luce in fondo al tunnel che comunque dovremo ancora percorrere. Questo virus, essendo nuovo, si può diffondere alla popolazione mondiale, quindi dovremo mantenere ancora a lungo misure stringenti, così come dovremo aspettarci piccoli focolai, fino a che non sarà disponibile un vaccino.  

Pensa sia ipotizzabile che questo virus in qualche modo si “depotenzi”? 

I virus tendono a migliorare le loro performance, quindi se uccidono troppo rischiano di non trovare altri soggetti da infettare. Ad esempio il virus Ebola all’inizio uccideva l’80 per cento dei soggetti infettati con febbri emorragiche e poi ha dovuto adattarsi, adottando una strategia più subdola per trovare nuovi ospiti. Le nuove forme hanno una letalità del 60-70 per cento. Il virus Sars-Cov-2 ha per ora trovato la variante giusta, il modo di essere perfido per riuscire a diffondersi e non farci capire nemmeno da quanto era già con noi. Quanto al suo depotenziamento, è possibile. In genere si tratta di strategie di adattamento: in effetti in Olanda pare abbiano isolato una sequenza che presenta una dozzina di nucleotidi in meno. A differenza del virus del morbillo che presenta maggiori complessità ed è rimasto invariato negli anni, i virus dell’influenza non si replicano in modo stabile, ma seguono il principio della selezione naturale darwiniana. Anche il Sars-Cov-2, allo stesso modo, tende a provare delle “varianti” per vedere quali funzionano meglio.

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