Il via libera della Food and Drug Administration statunitense all’anticorpo monoclonale aducanumab contro l’Alzheimer, il 7 giugno scorso, ha suscitato reazioni contrastanti nella comunità scientifica e acceso la speranza in milioni di pazienti e nei loro familiari. Oltre 600mila i malati in Italia e 120mila in Lombardia, un decimo dei quali a Milano: quali prospettive si aprono concretamente con questa novità? Lo abbiamo chiesto al presidente della Società Italiana di Neurologia (SIN) Gioacchino Tedeschi, professore ordinario di Neurologia all’Università Vanvitelli di Napoli.
Aducanumab, sviluppato da Biogen con il nome commerciale Aduhelm, è il primo medicinale approvato dopo 18 anni contro l'Alzheimer ed è il primo in assoluto che interviene sulle cause di questa malattia più che sui sintomi. Professor Tedeschi, siamo davvero a un punto di svolta?
Si tratta certamente di una svolta. Per la prima volta dopo tanti anni di tentativi falliti c’è un farmaco che interviene su uno dei meccanismi di malattia. Sappiamo infatti che una delle principali cause dell’Alzheimer, anche se non l’unica, è il deposito di amiloide all’interno delle cellule nervose. Questo medicinale è in grado di ridurre le placche amiloidi che si accumulano nel cervello dei malati. Ora si apre una serie di aspettative, ma anche di problematiche sia scientifiche che organizzative.
La FDA ha scelto un percorso di approvazione “accelerato” ammettendo “incertezze residue sui benefici clinici” di aducanumab. Inoltre, il farmaco è stato autorizzato negli Stati Uniti inizialmente per tutti i pazienti Alzheimer, ma l'8 luglio l'agenzia americana ne ha ristretto l'azione solo alle persone con declino cognitivo lieve. Come se non bastasse, ora la FDA ha chiesto di aprire un'indagine federale sull'approvazione. Cosa dobbiamo aspettarci in Europa e in Italia?
Uno degli equivoci su cui si è incentrato il dibattito è che la Food and Drug Administration ha dato la sua approvazione accelerata, il che ha già di per sé un suo significato perché vi è un enorme bisogno di innovazioni in questo campo. L’autorizzazione della FDA è basata sulla dimostrata riduzione della concentrazione amiloide nelle persone che hanno preso parte allo studio: queste ultime, però, non erano affette da Alzheimer, visto che già in passato studi scientifici hanno dimostrato che aducanumab, così come altri farmaci simili, non ha alcun effetto benefico su pazienti Alzheimer.
E allora chi potrà utilizzare questo farmaco in Italia?
I due trial clinici che hanno portato la FDA all’autorizzazione riguardano persone con decadimento cognitivo lieve, probabilmente destinate a sviluppare la malattia, nelle quali la presenza di amiloide nel cervello era stata dimostrata o con una Pet o con un esame del liquido cefalorachidiano. Perciò, quando Ema e Aifa approveranno questo farmaco, cosa che non credo avverrà prima di un anno, aducanumab sarà messo a disposizione di pazienti con decadimento cognitivo lieve e presenza di amiloide nelle cellule nervose.
Parliamo dunque di diagnosi precoce: come avverrà la selezione dei candidati?
Sarà molto complicato individuare questi pazienti, considerando che la diagnosi richiede test neuropsicologici accurati. Bisognerà anche identificare la proteina amiloide ed escludere fattori che non permettono la somministrazione di aducanumab, a causa dei suoi effetti collaterali. Si richiederà insomma un’attività diagnostica complessa che riguarderà inizialmente oltre un milione di over-65 per arrivare a circa 100mila pazienti candidabili. L’intero servizio sociosanitario dovrà essere coinvolto, non solo i centri Alzheimer: i medici di famiglia saranno chiamati a fare lo screening preliminare e a collaborare con i neurologi. E poi bisognerà seguire con attenzione ogni paziente perché questo farmaco, che va somministrato con infusione endovenosa in centri specializzati, può determinare reazioni infiammatorie del sistema nervoso centrale. Un impegno enorme di sanità pubblica che richiederà risorse ulteriori.
È possibile prevenire l’Alzheimer?
Sono convinto che il fattore di prevenzione primario sia l’educazione. Il nostro cervello è un organo che risente dell’allenamento cui viene sottoposto quotidianamente nel corso di tutta la vita. Andare a scuola, leggere, avere una vita intellettualmente soddisfacente ma anche una vita sociale e ludica che metta il nostro cervello in condizioni di lavorare costantemente significa fare prevenzione primaria. È chiaro che esistono altri fattori di rischio come ipertensione, obesità, malattie cardiovascolari, diabete e fattori ambientali sui quali lavorare per ridurre l’impatto enorme di questa malattia, destinato ad aumentare con l’invecchiamento della popolazione.
C’è un possibile legame tra depressione e Alzheimer?
La correlazione esiste certamente perché una persona depressa riduce i suoi interessi, le attività quotidiane e quindi anche l’utilizzo delle sue capacità cognitive. E questo fa sì che il nostro cervello, che in fondo è un muscolo da allenare, non venga sollecitato in maniera ottimale.
Per due terzi dei malati di Alzheimer il peso assistenziale ed emotivo grava soprattutto sui familiari. Come aiutare i caregiver?
Il ruolo del caregiver è importantissimo, soprattutto per il mantenimento della riserva cognitiva del paziente attraverso adeguati stimoli. Oggi, per motivi di necessità, si fa molto ricorso a badanti anche se spesso si tratta di persone che non possiedono una formazione e hanno problemi di interazione linguistica con i pazienti e questo è un limite perché i malati, se non stimolati adeguatamente, sono destinati a non migliorare. Tutti i caregiver vanno sostenuti in modo adeguato, a livello sociale, sociosanitario e formativo, con iniziative mirate ad aiutare il paziente a casa e ad alleviare il caregiver. È necessario un maggiore investimento, anche economico, per alleggerire un compito così importante e gravoso per centinaia di migliaia di famiglie.
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