Lo studio dei ricercatori di Milano-Bicocca e Humanitas University pubblicato su “Gastroenterology” apre nuove prospettive sulla comprensione delle malattie autoimmuni e del perché colpiscono molto di più le donne rispetto agli uomini.
La ricerca condotta da un team internazionale segna un importante passo in avanti verso la comprensione delle cause della colangite biliare primitiva (CBP). Il lavoro è stato coordinato dagli esperti dell’Università di Milano-Bicocca e del Centro delle Malattie Autoimmuni del Fegato dell’Ospedale San Gerardo di Monza, da anni impegnati a studiare questa malattia, e da genetisti dell’Istituto Clinico Humanitas di Rozzano. I curatori della ricerca hanno indagato il contributo del cromosoma X all’architettura genetica della patologia del fegato.
Come la maggior parte delle malattie autoimmuni, la CBP è una patologia che colpisce soprattutto il sesso femminile, con un rapporto tra femmine e maschi affetti di 9 a 1. Dagli anni ‘50 e ‘60 del secolo scorso molti medici e scienziati si sono dedicati a studiare gli ormoni sessuali, quali l’estrogeno e il progesterone, per spiegare questa marcata preponderanza femminile senza però ottenere una chiara spiegazione. Per questo motivo gli studi si sono poi estesi anche ai cromosomi sessuali.
Lo studio “X chromosome contribution to the genetic architecture of primary biliary cholangitis” (DOI: 10.1053/j.gastro.2021.02.061) è stato pubblicato dalla rivista “Gastroenterology”. Grazie al contributo di colleghi di istituzioni sanitarie e istituti di ricerca del Regno Unito, del Giappone, della Cina e del Canada, i ricercatori di Milano-Bicocca e Humanitas University hanno raccolto ed esaminato i dati genetici relativi a 5.244 casi, compresi quelli di pazienti italiani. Applicando per la prima volta un metodo di analisi chiamato XWAS e sviluppato proprio per identificare in modo adeguato possibili associazioni genetiche nel cromosoma X, sono emerse associazioni con geni come il gene “FOXP3” che, se difettosi, possono alterare le normali funzioni delle nostre difese immunitarie, portandole ad “auto-aggredirci” e quindi a causare la CBP ed autoimmunità.
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«Questo studio è stato specificamente disegnato per indagare il cromosoma X, che, per le sue peculiarità (è presente in due copie nelle donne, ed in singola copia negli uomini), è sempre stato poco studiato. Si pensi che il cromosoma X costituisce il 5% del genoma umano e che mutazioni in geni localizzati in questo cromosoma spiegano circa il 10% delle malattie monogeniche. Nonostante questo, gli studi su cromosoma X e malattie complesse -o multigeniche, come la CBP- sono solo agli inizi, e meno dell’1% di tutte le associazioni genetiche finora descritte riguardano questo peculiare cromosoma», spiega Rosanna Asselta, docente alla Humanitas University, che aggiunge «Abbiamo fatto luce su una strada ancora poco esplorata, che potrà essere ora battuta per capire il coinvolgimento di questo cromosoma anche in altre malattie. Più in generale, si tratta di un piccolo passo verso la medicina di genere, finora ancora poco considerata».
«Il nostro gruppo è stato pioniere ormai più di 20 anni fa nello studio del ruolo dei difetti genetici ed epigenetici dei cromosomi sessuali, X ed Y, per spiegare la predominanza del sesso femminile nella CBP e nell’autoimmunità più in generale, e questo ultimo studio è l’ennesima conferma che è proprio nei cromosomi sessuali che si trova la risposta principale a questo fondamentale problema – afferma Pietro Invernizzi, gastroenterologo dell’Università di Milano-Bicocca –. Capito questo, pensiamo di poter capire anche perché ci ammaliamo di questa malattia rara del fegato, così come delle 80 o più malattie autoimmuni che nell’insieme colpiscono ben il 5-6% della popolazione generale, spesso con quadri clinici molto debilitanti e scarsa disponibilità di terapie efficaci come nel caso dell’artrite reumatoide, del lupus e delle connettivopatie».
«La Federazione Italiana delle Malattie Rare rappresenta diverse associazioni di pazienti con patologie autoimmuni (e molte di queste sono formate principalmente da donne); per questo siamo lieti di sapere che la ricerca ha compiuto un passo in avanti nella comprensione di questa malattia. In Italia in questo campo c’è ancora molto da fare per garantire l’equità nell’accesso ai servizi e per creare esperienze territoriali che siano in rete. Ci auguriamo che questo studio possa aprire la strada a terapie più efficaci, e magari addirittura risolutive, e contribuire a rafforzare il concetto di centralità del paziente e di personalizzazione delle terapie – afferma Annalisa Scopinaro, presidente di Uniamo F.I.M.R. onlus –. La ricerca scientifica in Italia continua a contribuire in modo determinante alle conoscenze in medicina: è un vero orgoglio, oltre che un bene per i tanti pazienti italiani».
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