“La ripartenza presenta rischi altissimi in Lombardia. Innanzitutto perché non sono state fatte indagini epidemiologiche sulla popolazione: da oggi possiamo uscire di casa per andare a lavorare ma nessuno sa “chi è l’altro”: molti potrebbero avvicinare persone infette sul luogo di lavoro o sui mezzi pubblici. Sulla metro affollata nell’ora di punta, la mascherina e il distanziamento fisico sono insufficienti: è necessario un piano di prevenzione più ampio”. Lancia l'allarme la consigliera regionale e infermiera Carmela Rozza (Pd) esortando i vertici regionali a “cambiare strategia”
e a organizzare la sanità territoriale in modo da spegnere eventuali nuovi focolai infettivi. “Sono preoccupata per questo periodo che ci aspetta – afferma -, non vorrei ritrovarmi nella situazione drammatica appena passata, quando tanti malati venivano lasciati morire in casa senza possibilità di cura e assistenza”.
La consigliera Rozza è tra i 14 firmatari della mozione di sfiducia nei confronti dell’assessore al Welfare lombardo Giulio Gallera e del suo staff tecnico che oggi pomeriggio, lunedì 4 maggio, verrà discussa in Consiglio regionale: il documento del Pd lombardo chiede un cambio radicale dell’assetto politico e tecnico dei vertici che hanno gestito l’emergenza Covid.
Numeri impressionanti dal 21 febbraio ad oggi: oltre 75mila cittadini positivi al Covid, 14mila decessi e un tasso di letalità che si attesta da giorni sul 18,5 per cento dei contagi accertati con tampone; un picco registrato il 3 aprile di 12mila posti letto occupati in degenza ordinaria e 1.400 nelle terapie intensive. Di fronte a questa emergenza il documento di sfiducia evidenzia “una gestione incerta e deficitaria”, affermando che “non si è proceduto con la tamponatura di tutti gli operatori sanitari e sociosanitari in servizio, mettendoli a repentaglio e facendo diventare essi stessi veicolo del contagio”. Anche “il numero di test che la regione è in grado di processare al giorno è insufficiente ed è mancato un piano credibile per incrementarlo”, mentre le RSA “sono diventate loro stesse focolai del virus a causa delle decisioni regionali, tra cui la scelta della Giunta di far entrare già dai primi di marzo i malati Covid-19 al loro interno”.
Oggi non esiste una fotografia della situazione lombarda, commenta la consigliera Rozza: “la Regione è partita in forte ritardo con i test sierologici, ora in corso sul personale sanitario e nelle Rsa: avrebbe dovuto iniziare un mese fa come hanno fatto il Veneto, l’Emilia Romagna e la Toscana. Inoltre, a marzo e aprile ha fatto la scelta di eseguire pochi tamponi, non testando neppure le persone con sintomi di Covid: molti malati sono deceduti in casa senza essere compresi tra le vittime della pandemia. Così come non sono stati controllati i contatti dei positivi isolati nella loro abitazione che potrebbero avere infettato i loro familiari o i conviventi. Ecco perché tante persone che in questi giorni si recano al lavoro sono in grado di contagiarne altre”.
Oltre a non avere un quadro epidemiologico serio, spiega Carmela Rozza, non esiste “un’organizzazione territoriale per la sorveglianza nei luoghi lavoro e nelle famiglie; infine non c’è un sistema strutturato di assistenza domiciliare. Se nella Fase 2 dovessero evidenziarsi nuovi focolai infettivi, quali interventi sono possibili, visto che la Regione non è in grado di eseguire tracciamenti né test molecolari? Un esempio per tutti: oggi un medico di famiglia che vuole richiedere un tampone per un suo paziente deve inviare una richiesta all’ATS, Agenzia per la tutela della salute, e richiedere anche l’intervento delle USCA le Unità speciali di continuità assistenziale che si occupano del trattamento domiciliare dei malati di Covid e dei sospetti: solo l’ATS decide se effettuare il tampone. Così i tempi si allungano, il paziente peggiora e si diffonde il contagio”.
Le carenze dell’organizzazione territoriale sono uno dei punti principali della mozione di sfiducia discussa oggi in Consiglio regionale: “Nonostante illustri scienziati abbiano sempre sostenuto che il contagio si può bloccare solo sul territorio e non certo in ospedale, la sanità territoriale è parsa, fin da subito, inadeguata a gestire il controllo del contagio e le strutture territoriali non sono state messe in grado di avere le risorse necessarie per attivare adeguati servizi per i cittadini in virtù di una precisa strategia della DG Welfare che ha inteso puntare tutto sugli ospedali, che non hanno potuto reggere l’urto di migliaia di accessi di pazienti che si sono riversati in Pronto Soccorso che non hanno avuto le necessarie indicazioni e risorse per evitare che il contagio dilagasse negli stessi ospedali”.
L’epidemia di Coronavirus ha fatto venire allo scoperto queste carenze, legate a un’organizzazione ospedalocentrica del sistema sanitario lombardo (Legge n.23 del 2015). “La Riforma Maroni – dichiara Rozza - disconosce il ruolo della cura centrata sulla persona, e stabilisce invece che tutto debba essere ospedalizzato. Così, il territorio è diventato un’appendice dell’ospedale. In questa logica anche il paziente cronico dev’essere curato in ospedale”. Nel caso del Coronavirus “è esattamente il contrario, perché si è visto quanto sia importante intervenire con le cure e l’assistenza a casa nella prima fase della malattia. La pandemia dunque ha reso evidenti i limiti della Riforma Maroni”. Questa legge, varata da Regione Lombardia nel 2015, è stata poi approvata dal Governo in quanto “sperimentale”: la sperimentazione scade a dicembre 2020.
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