Su una popolazione di 51 milioni di persone con più di 18 anni di età, oltre 24 milioni presentano una patologia cronica. E di questi 8,4 milioni sono ultra 65enni. Nella fascia 65 - 75 anni, più della metà convive con una o più patologie croniche e questa quota aumenta fino ad interessare i tre quarti degli ultraottantacinquenni.
Prima dei 55 anni la più frequente malattia cronica riguarda l’apparato respiratorio (6% degli adulti) e dopo i 55 anni aumentano le cardiopatie (30%) e verso gli 80 anni il diabete (20%). La prevalenza dei tumori raggiunge il suo valore massimo (15%) intorno agli 80 anni.
I casi con eventi pregressi di ictus e ischemia cerebrale e insufficienza renale iniziano ad aumentare dopo i 70 anni, mentre la prevalenza delle malattie croniche del fegato non supera mai il 5% neanche in età avanzata. L’ipertensione arteriosa è meno del 10% prima dei 40 anni mentre arriva al 65% intorno agli 80 anni. Più frequente in correlazione con altre patologie.
I dati a disposizione indicano che all’avanzare dell’età le malattie croniche diventano la causa principale di morbilità, disabilità e mortalità e con l’aumento della vita media risulta chiaro l’aumento di incidenza di tali malattie sul totale delle patologie e l’attenzione delle politiche sanitarie e sociosanitarie su tale problematica che, vale la pena sottolinearlo, rendono conto di una spesa pari a circa il 70% delle risorse sanitarie complessive.
Il Ministero della Salute ha emanato nel 2016 il PNC (Piano Nazionale Cronicità) e le Regioni hanno adottato strategie diverse, nella consapevolezza che la diagnostica di primo livello deve essere effettuata all’interno del territorio, anche per non intasare gli ambulatori ospedalieri che dovrebbero effettuare per lo più la diagnostica di secondo livello, cioè quando al paziente è già stata diagnosticata una malattia che necessita di ulteriore approfondimento e cure complesse.
Per fare una diagnostica di primo livello territoriale, dunque, bisogna aumentare le competenze del personale infermieristico e dei medici di famiglia in linea con quanto avviene negli altri Paesi europei.
Naturalmente è necessaria una progettualità nazionale e regionale, che vada dalla formazione alla compilazione integrata di protocolli di uso della diagnostica e della tecnologia attuale e futura, sempre più orientata anche ad un uso extra ospedaliero.
Come garantire la migliore presa in carico possibile dei pazienti con malattie croniche?
“Le patologie croniche oggi sono una sfida per i sistemi assistenziali che non può essere vinta senza organizzazione adeguata, senza integrazione tra professionisti diversi e senza una indispensabile centralità del cittadino-paziente, che deve divenire consapevole ed esperto (empowered) – spiega Paola Pisanti, Consulente esperto di Malattie Croniche del Ministero della Salute -. È quindi necessario per il nostro Paese ricomporre la contrapposizione di processi che vedono, da una parte, il Sistema sanitario, che restringe ed affina i propri ambiti di intervento attraverso l’appropriatezza e, dall’altra, le trasformazioni socio-economiche e l’indebolimento delle reti sociali. Pertanto per rispondere al maggiore bisogno (incremento delle patologie croniche) la chiave di lettura dei bisogni di salute va oggi rivista e richiede anche un maggiore coinvolgimento del cittadino e paziente in un rinegoziare delle attività di prevenzione e cura e quindi promuovere nuove forme di presa in carico. Il Piano nazionale della cronicità (2016) può essere considerato uno strumento “generalista” di riferimento nazionale per le successive articolazioni regionali del PNRR, che rappresenta una preziosa occasione per metter mano davvero ad una concreta presa in carico delle cronicità sul territorio”.
Al centro delle riflessioni la “medicina d’iniziativa” e del “follow up attivo”.
“Territorializzare non significa espropriare l’ospedale, né lo specialista ospedaliero, di una sua precipua funzione di riferimento nella gestione dei pazienti cronici – prosegue l’esperta del Ministero della salute -. Lo sforzo deve essere, innanzitutto, quello di prevenire i ricoveri attraverso il potenziamento del territorio ed in particolare ricorrendo allo strumento della “medicina d’iniziativa” e del “follow up attivo”, strumenti che permettono di garantire un monitoraggio stabile e proattivo dei pazienti, in particolare di quelli a stadio più avanzato di malattia, e di intraprendere azioni correttive quando cominciano a palesarsi i primi segni di scompenso”.
Conseguentemente, un sistema assistenziale orientato alla gestione della cronicità deve programmare il proprio sistema di valutazione orientandosi su tre focus principali: il paziente-persona e il suo progetto individuale di salute “globale” definito attraverso un “Patto di Cura” personalizzato e condiviso che consideri la sua condizione clinica e il contesto di vita in cui la malattia viene vissuta (determinanti socio-ambientali); i processi attivati, e non solo gli esiti effettivamente raggiungibili nella storia del paziente, dato che alcune misure nel breve-medio periodo sono leggibili come misure di processo e come esiti intermedi (intermediate outcome); il sistema organizzativo socio-sanitario, basato sull’attivazione di “ leve di sistema” (politiche, strategiche, gestionali, organizzative, operative, ecc.) da parte dell’organizzazione capaci di ottenere risultati validi sui pazienti e sulle loro storie.
Nel nostro Paese si contano 5,5 infermieri per 1.000 abitanti, 4 medici per 1.000 abitanti e 24.040.000 milioni di persone (il 39,9% del totale) con una malattia cronica in Italia (dato Istat 2017), di cui il 55% ha più di 60 anni. Di fronte a questi numeri, secondo Walter Locatelli del Collegio Probiviri FIASO, c’è la necessità di riflettere sul vero patrimonio di un sistema sanitario, i suoi professionisti e quindi una precisa definizione del loro vero fabbisogno.
“Le classificazioni per cronicità sono state nel tempo oggetto di numerosi approfondimenti ed oggi le varie “banche dati assistito” offrono informazioni preziose e puntuali, necessitano di standardizzazione ed uniformità. Per quanto riguarda la cronicità e risposte di 1° e 2° livello, solo una reale integrazione tra i vari livelli (alta specialità/ospedaliera specialistica/territoriale) può dare la risposta più utile: i problemi sono per lo più organizzativi essendo necessaria una compartecipazione delle varie componenti territoriali e specialistico ospedaliere a diversi fondamentali momenti quali formazione, predisposizione PDTA da coordinarsi a livello complessivo. La governance complessiva deve consentire una sinergia positiva tra professionisti che provengono da aziende/enti diversi con rapporti di lavoro non omogenei; ed è importante la valorizzazione del ruolo dei professionisti della sanità (infermieri, tecnici sanitari, fisioterapisti, assistenti sanitari, ostetriche, logopedisti) in quanto sono una risorsa ineludibile in particolare per nuove capacità di risposta ai bisogni territoriali. Infine, occorre una disponibilità di tecnologie informative idonee e percorsi di accesso differenziati, 1° livello territoriale, 2° livello specialistico, e in ogni caso con presa in carico dei vari bisogni complessiva”.
Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
® RIPRODUZIONE RISERVATA