“Quali persone ha incontrato negli ultimi giorni?” “Con chi vive?”. Sono queste le due domande fondamentali che permettono di ricostruire la catena epidemiologica e far scattare le due principali misure di contenimento dell’epidemia: isolamento stretto per i malati di Covid-19; quarantena per i contatti, in primis familiari e amici. “L’isolamento è l’elemento chiave per consentire di ridurre l’epidemia” - spiega Sandro Cinquetti, direttore del Servizio Igiene e Sanità pubblica (SISP) che fa parte del Dipartimento di Prevenzione dell’ULSS 2 Treviso, un bacino di utenza di 1 milione di abitanti.
“Questa misura deve essere presa immediatamente sia in caso di tampone positivo sia in caso di Covid like illness, quando si è in presenza di sintomi quali tosse e febbre ma ancora la malattia non è confermata da tampone”.
Scatta così a Treviso il Piano di “presa in carico” e “sorveglianza attiva” attuato dalla task-force dedicata al Covid 19 del SISP. Treviso ha adottato il modello deciso dalla Regione e questa è dunque la prassi che devono seguire tutti e 9 i Dipartimenti di Prevenzione esistenti sul territorio del Veneto che conta circa 5 milioni di abitanti.
Il Dipartimento di Prevenzione di Treviso ha al suo attivo circa 350 operatori (tra medici igienisti, infermieri, assistenti sanitari, veterinari, tecnici della prevenzione): di questi, circa 130-150 sono oggi impegnati nell’emergenza Covid-19.
Ma cosa prevede esattamente il Piano d’intervento contro la pandemia?
“All’inizio – spiega Cinquetti - si attiva il Team della presa in carico, una squadra di operatori specializzati in questo compito. Quando un tampone effettuato in laboratorio conferma la positività di un soggetto, la segnalazione viene inviata immediatamente a questo Team che contatta subito il soggetto positivo e lo prende in carico insieme con i suoi conviventi e contatti stretti”.
Quali sono i passaggi previsti in questa prima fase?
“La presa in carico – afferma il direttore - avviene con contatto telefonico e prevede un colloquio approfondito con la persona interessata oppure con un suo familiare o convivente in caso di difficoltà di comunicazione: in alcuni casi, ad esempio, il soggetto positivo è molto anziano oppure si trova già all’ospedale, o in una casa di riposo”.
Quindi il testimone passa al Team della Sorveglianza attiva, una squadra formata in particolare da assistenti sanitari ed esperti di counselling: il piano prevede una telefonata quotidiana anche per chi ha pochi sintomi (i cosiddetti paucisintomatici) per verificare le condizioni generali del paziente: ad esempio se si tratta di una persona “ansiosa” l’operatore la aiuta ad affrontare al meglio la situazione, oppure se vi sono necessità concrete come fare la spesa ecc. vengono attivati i volontari sul territorio del Comune”.
Ma il paziente viene anche istruito affinché riesca a riconoscere da solo i sintomi più importanti della malattia (soprattutto la difficoltà di respiro) che potrebbero rendere necessaria la consultazione urgente del medico di famiglia o la chiamata al 118. Anche le persone senza sintomi vengono monitorate costantemente.
“Se invece una persona presenta sintomi Covid like illness, il medico di famiglia, di regola dopo una sintomatologia di 3-4 giorni chiede che venga effettuato il tampone: questo è finora l’unico test attraverso il quale si può avere la conferma che si tratti di un caso di Covid 19”.
La modalità più frequentemente usata per il tampone è quella del “drive-in” (o drive-through). “Il paziente, da solo o accompagnato da un familiare, raggiunge il punto di esecuzione dei tamponi che vengono eseguiti dal finestrino dell’auto per garantire la massima sicurezza anche degli operatori e il risparmio delle dotazioni protettive, i cosiddetti Dpi. Invece per i pazienti con difficoltà di movimento viene organizzato il tampone a domicilio”.
In Veneto sono stati eseguiti finora circa 300mila tamponi, un numero di poco inferiore a quelli somministrati in Lombardia dove però gli abitanti sono il doppio.
La politica di estensione dei test con la somministrazione del tampone anche alle persone con pochi sintomi (paucisintomatici), oltre a quelli che presentano sintomi moderati ha consentito di tenere in isolamento a casa la maggioranza dei pazienti. Ed è questo che ha permesso di tenere sotto controllo i contagi in questa regione, diversamente da quanto accaduto nella vicina Lombardia che ha invece adottato un approccio alla malattia prevalentemente ospedaliero, in particolare all’inizio dell’epidemia.
“In Veneto per l’emergenza Covid 19 si sono potenziati i servizi di prevenzione sul territorio – afferma Cinquetti - e questo ha permesso, soprattutto nella fase iniziale dell’epidemia, di mandare in ospedale solo un paziente su 4, ossia il 25% dei malati”.
Invece la Lombardia ha dato una risposta ospedaliera diametralmente opposta. “Due su tre dei pazienti lombardi, ad inizio epidemia, sono stati ricoverati e purtroppo l’ospedale si è rivelato essere un crogiuolo infettivo, con le conseguenze che tutti abbiamo conosciuto”.
Del resto, la Lombardia negli ultimi anni ha attuato una politica sanitaria ospedalocentrica, privilegiando l’eccellenza di alcune strutture ma dedicando minore attenzione alla medicina territoriale. “Il punto è proprio questo – sottolinea il direttore -: in una malattia infettiva nuova come Covid-19 la prima risposta deve essere data fuori dall’ospedale, attraverso l’individuazione precoce dei soggetti positivi e l’isolamento a casa”. Questa è una delle principali misure per il contenimento dell’epidemia.
Questo schema di intervento “è forse più facilmente praticabile in una regione come il Veneto – tiene a precisare l’esperto di prevenzione - dove la medicina territoriale e l’assistenza domiciliare appartengono alla stessa catena di comando strategica dell’ospedale. A parte le due aziende ospedaliere universitarie, rispettivamente di Padova e di Verona, tutto il resto degli ospedali veneti fa capo alle 9 aziende sanitarie (le ULSS, unità locali socio sanitarie ) e questo ha consentito una migliore integrazione territorio-ospedale per gli interventi.
Inoltre, va considerato che la Lombardia è stata la prima regione a registrare l’assalto epidemico mentre le altre hanno avuto due settimane in più per prepararsi. “Di fatto, ad eccezione del focolaio iniziale di Vo’ Euganeo che è stato contemporaneo al focolaio di Codogno, il Veneto ha potuto organizzarsi un po’ meglio mentre in Lombardia il fenomeno epidemico è stato stato subito di grande impatto”.
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